VISIONI DELL'UMANITÀ
L'Arte per i Diritti Umani


sommario

INDICE
 

L'ARTE DEI DIRITTI
Gianleonardo Latini
curatore dell'iniziativa
2007


 


L’arte, in questi ultimi anni, si è resa sempre più disponibile verso temi sociali e aiutando i meno fortunati, ma “Visioni dell’Umanità” si differenzia dalle altre iniziative perché in questa occasione gli artisti non hanno donato un loro lavoro per essere messo all’asta e con il ricavato finanziare uno dei molti progetti umanitari. In questa occasione gli artisti hanno realizzata appositamente un’opera di cm. 20x20, per essere messa a disposizione alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui Diritti Umani, in una serie di proposte espositive per l’arte coniugata alla quotidianità della vita.
Per questi motivi, a 60 anni da quando l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, si è pensato ad un progetto espositivo itinerante che, partendo dal 2007, è stato realizzato in tre diversi spazi romani, quello del Liceo Majorna è il quattro, raccogliendo, allestimento dopo allestimento, numerose adesioni che dal centinaio iniziali si è arrivati a duecento.
Diversi luoghi e diverse forme artistiche per portare nel quotidiano le differenti “Visioni dell’Umanità” perché la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani non sia solo un proclama, ma anche le immagini per un nuovo impegno e visualizzare ciò che diamo per scontato.
Non tutti possono gioire per le libertà fondamentali […] senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità […].

Ci sono i Diritti spettanti ad ogni individuo che nasce libero ed eguale agli altri e dinanzi alla legge, dovrebbero garantire l'istruzione, l’alimentazione e la salute nella sicurezza della propria persona, ma anche quelli collettivi, come l’autodeterminazione e all’accesso alle risorse del proprio territorio, per salvaguardarle dalle razzie delle nazioni dominanti, senza dimenticare che solo in questi ultimi anni, dopo decenni, alcune nazioni si sono interrogare anche sui Diritti dei nativi delle terre colonizzate dai "bianchi", collocando le popolazioni autoctone nel gradino più basso della scala classista.
Un diritto dei nativi che non è stato riconosciuto proprio da quelle nazioni che sono nate dalla “colonizzazione” come l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada e gli Stati Uniti. Di queste civili nazioni troviamo l’Australia in una mutata posizioni con l’avvenuto cambiamento di governo da conservatore a laburista.
Sono stati necessari anni – secoli – prima che venisse riconosciuto il Diritto dei popoli indigeni all’autodeterminazione e all’utilizzo delle risorse della propria terra.
Ma riconoscere è ben differente dall’accettare che lo sfruttamento di tali risorse sia a completo vantaggio dei popoli che vivono in quelle terre e sotterrare per sempre gli strascichi postcoloniali, come dimostra la volontà della Repubblica Democratica del Congo di rinegoziare i contratti minerari.
Ogni guerra, attualmente sono una decina i conflitti sui quali si hanno poche notizie, scaturisce per avidità e anche quando si dichiara che è per la libertà, l’indipendenza o l’autonomia di un lenzuolo più o meno ampio di terra, la verità è che in quel territorio è presente una ricchezza che altri vogliono, anche nel caso del Kossovo. Nel caso del Tibet è la Cina che può imporre la sua volontà avendo, come si suol dire, i cordoni della borsa dell’economia americana e un boicottaggio economico non lo sentirebbe, mentre per l’Occidente sarebbe catastrofico.
Cosa si sa di ciò che accade nella Repubblica Centroafricana o della Cecenia e Somalia. Poi ci sono il Sahara Occidentale e la Papua Nuova Guinea, la Birmania-Myanmar e l’Uganda. Tutti luoghi offuscati dall’Iraq, Afganistan e timidamente dal Tibet, assenti nei notiziari televisivi e dalla carta stampata, con l’eccezioni delle testate cattoliche, e tutti quei piccoli conflitti a sfondo religioso (Indonesia, Filippine, Vietnam, etc.) o a discapito delle minoranze (Montagnard, Yugur, Pigmei, etc.) e le pandemie di AIDS in Africa e in Asia, sino alle violenze in Liberia e in Haiti, oltre alla nascita di stati “canaglia”, fatti su misura per esternare la fantasia dei traffici illeciti dell’Occidente e dell’Oriente. Economie canaglie avallate da accordi commerciali tra governi autoritari, ma non autorevoli, con politici dalla manchevole conoscenza approfondita del bene e del male.
Alcune rivendicazioni sono più importanti e facilmente si possono trovare alleati per una parte o per l’altra, se si ha la possibilità di ottenere dei vantaggi economici o strategici.
I popoli che non acquistano armi o non hanno petrolio non possono ambire ad una vita libera e dovranno sottostare al prepotente di turno.
Limitare le aspettative individuali per una vita agiatamente consumistica potrà servire ad aiutare il prossimo, non solo economicamente, ma una eguaglianza dei diritti e doveri verso i nostri simili e la Terra che popoliamo.
Operare localmente, pensando globalmente alla mancanza di diritti, significa riflettere anche sui diritti “accantonati” dei cittadini dei paesi democratici, come il poter respirare aria pulita e non essere sommersi dai rifiuti o magari evitare la privatizzazione dell’acqua.
Allontanare dalla nostra vista nomadi e mendicanti non li “cancella “ dalla nostra quotidianità, ma ci solleva la conoscenza e se non si vuol percorrere la strada dell’altruismo è opportuno calarsi nell’ambito di un egoista illuminato, riflettendo sull’avidità come base di ogni disuguaglianza.
Il benessere degli altri è il nostro benessere e non serve depredare il cuore dell’Africa per avere il telefonino alla moda o tacere sull’oppressione verso il popolo tibetano perché potrebbe essere a rischio un mercato di milioni potenziali compratori.
Leggere può essere faticoso e spesso di poco successo, ascoltare chi pretende di dire cosa fare e non fare, è pretenzioso e noioso, ma proporre l’immagine è una comunicazione diretta, adatta a far riflettere, porsi delle domande e migliorare il rapporto con l’altro, salvaguardando il nostro mondo di programmi televisivi scandenti e miracolose vincite.
Poter avere l’occasione di meditare sulle infanzie negate dallo sfruttamento minorile per le nostre coloratissime scarpe sportive, dovrebbe essere la missione dell’arte in questo millennio turbato da conflitti dimenticati e governi dispotici.
L’arte come cardano della società, un giunto che consenta di trasmettere un moto, dove l’asse è l’arte e alle singole persone giunge la reazione dell’immagine.

Tra conquiste collettive trova posto anche quelle individuali che permettono un ambiente depurato dall’inquinamento, attraverso impegno delle singole persone, oltre che dei governi e degli imprenditori, per non trovarsi un giorno con una natura satura di miasmi e l’acqua, bene primario insieme all’aria, privatizzata.
In questo ampio panorama di una umanità schiacciata dalle prepotenze, l’arte può amplificare la voce degli ultimi, creando delle occasioni d’informazione e permettere a tutti noi di riflettere sull’esistenza di un “altro” che si cerca di evitare d’incontrarlo, ma che esiste e ci viene incontro.
In questo ampio panorama di una umanità schiacciata dalle prepotenze, l’arte può amplificare la voce degli ultimi, sbattendo in faccia, visioni naif o concettuali, iperrealiste o astratte, creando delle occasioni d’informazione e permettere a tutti noi di riflettere sull’esistenza di un “altro” che si cerca di evitare d’incontrarlo, ma che esiste e ci viene incontro, con figurazioni dilatate o rese essenziali. Fotografie e pitture, piccole sculture e assemblaggi di nitide visioni di tante Umanità in un panorama globale o nella percezione localistica, portate all’esasperazione per un’esplorazione dei meandri del caos tecnologico e auspicabile riequilibrio della natura.
Riuscire a discernere l’emozionalità della materia da quella del messaggio dell’opera, è una delle possibili letture della mostra, oltre ad offrire uno sguardo sulle diverse visioni nella composizione di un “mosaico” d’immagini, facilitato nell’uniformazione delle misure per evidenziare le “Visioni dell’Umanità”, acquistando un significato politico dell’arte.
Riprodurre l’opera, ispirandosi alla teorizzazione di Walter Benjamin (1936) che non aveva cognizione dell’ampia possibilità offerta dalle nuove tecnologie, non è solo “appiattendo” digitale della creazione, ma porre in primo piano il messaggio.
Un messaggio dove l’altro non è relegato in un ambito antropologico, ma è colui che ci permette di comprendere noi e le opportunità di crescita comune, come spiegò Ryszard Kapuściński in una serie di conferenze del 2004, raccolte in un pamphlet dedicato a L’altro, un vero e proprio testamento.
Un’umanità composta di altri che non amano il prossimo e denigrano la natura, ma poi ci sono altri che in silenzio danno l’esempio e il loro bisbiglio non è il solo nel deserto dell’avidità. È un bisbiglio che potrebbe essere paragonato alla capacità del un battito d’ali di una farfalla di provocare un uragano dall’altra parte del mondo, come teorizzava Edward Norton Lorenz. Ogni piccola azione può produrre grandi variazioni nel comportamento a lungo termine, non solo nell’universo scientifico, ma anche nell’ambito culturale.