LE RIFLESSIONI DI
MARCO
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GIOCARE ALLA GUERRA FA BENE
Ho seguito con attenzione l’esercitazione antiterrorismo che si è svolta
a Roma all’inizio di ottobre e che ha coinvolto tre gruppi di volontari,
pompieri e forze dell’ordine, rispettivamente al Colosseo, vicino alla
Stazione Termini e a Corso Vittorio. Meglio di me l’ha seguita mia
madre, che suo malgrado si è trovata in mezzo all’esercitazione
all’uscita da casa, sotto una pioggia torrenziale, chiusa tra il cordone
dei pompieri e i No global che hanno comunque aggiunto una nota di
realismo. Quanto alle ambulanze, sono arrivate traffico permettendolo,
cioè dopo venti minuti. Ma bene hanno fatto a simulare il tutto facendo
partire uomini e mezzi dai luoghi dove stanno ogni giorno. Il debriefing
di un’esercitazione comporta sempre l’analisi impietosa di tutto quello
che non funziona o che non ha funzionato, e sicuramente stanno ancora
discutendo a porte chiuse su quanto va fatto sul serio per la prossima
volta. Naturalmente in tv abbiamo visto la parte scenografica
dell’apparato, ma rispetto a Milano si sono p.es. evitati i falsi feriti
dipinti di rosso e altri elementi che avrebbero potuto creare confusione
fra gli estranei, cioè i comuni cittadini.
Il realismo dell’addestramento e delle esercitazioni che lo coronano è
sempre stato un problema serio. Non sempre è possibile ricostruire un
contesto credibile, vuoi per motivi di sicurezza, vuoi per il costo. Va
da sé che l’addestramento, militare o civile che sia, presenta alla fine
sempre gli stessi limiti: struttura stereotipata, scarsa rispondenza con
la realtà. In questo resta esemplare Gunny, un vecchio film di Clint
Eastwood, dove un bravo sergente maggiore dell’esercito americano si
batte per poter addestrare i soldati in modo meno convenzionale, visto
poi che in guerra ci devono andare sul serio. Non che non si siano fatti
passi avanti: io stesso ho visto alla scuola militare NBC (nucleare,
batteriologica e chimica) di Rieti un poligono dove è ricostruita
persino una stazione di metropolitana, come fossimo a Cinecittà. Ma chi
è stato militare sa benissimo che gli allarmi si sanno sei ore prima;
che le zone addestrative restan sempre le stesse per anni; che si
risparmia sempre sull’addestramento non potendo tagliare il resto.
Questo non significa che tutto fili liscio: ci si aspetta sempre che gli
ordini vengano trasmessi, compresi ed eseguiti; che i motori funzionino
sempre; che tutti abbiano uno standard di comune intelligenza
accettabile; che le radio oltre che pesanti siano pure funzionanti.
Il terrorismo complica le cose. Se gli obiettivi sono civili e il
contesto è metropolitano, la città è la palestra, né basta ricostruire
alla Scuola di Fanteria il “villaggio fantasma”. Si tratta di interagire
con una serie di enti civili con i quali va impostato un coordinamento
serio, come ben sanno quelli della Protezione Civile. Vanno organizzate
per tempo procedure standard e stabiliti livelli di responsabilità,
tarate le frequenze delle radio. In più, al personale di enti diversi va
assicurata una preparazione comune di base che eviti confusione,
sovrapposizione di compiti e squilibri. Come si vede, non è facile. Né è
facile controllare tutte le stazioni della metro o i nodi stradali,
vista anche la tipica tendenza italiana a proteggere i centri di potere,
trascurando invece le vie di comunicazione. Ma resta la domanda
iniziale: a che serve tutto questo? La risposta è: a dare sicurezza.
Esercito e Protezione Civile non creano ricchezza, la proteggono. Anche
se metà degli italiani ha considerato queste esercitazioni un fastidio o
peggio una buffonata (striscione dei No global: “Ma che state a fa’?),
una parte della popolazione si è sentita rassicurata. Tutti sapevamo che
i morti erano finti, anche se qualcuno sicuramente si è spaventato. Non
si prova soltanto il dispositivo di sicurezza, ma si collauda e si
abitua anche il nostro sistema nervoso ed emotivo all’eventualità che la
tragedia possa succedere. Ricordo che anni fa, durante le guerre di
mafia, a Palermo i ragazzini giocavano per strada “col morto”,
cerchiando di gesso l’asfalto dove il “caduto” giaceva stramazzato al
suolo. Ai depressi,un medico americano ha persino consigliato di
scavarsi la fossa. Sono quei meccanismi che, anticipando o immaginando
il peggio, funzionano un po’ come il vaccino: mi inietto un po’ di
microbi e batteri per poter vincere il male. Altrimenti subentra il
fatalismo. Ma quello ormai è un concetto estraneo alla società
occidentale. Marco Pasquali
12 ottobre 2005
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