LE RIFLESSIONI DI
MARCO
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IL MUSEO DEL NULLA
E’ del 6 febbraio (Messaggero, articolo di Andrea Giardina) la notizia
che il Museo della Civiltà Romana all’EUR sarà smantellato e trasferito
nell’edificio della ex Pantanella a via dei Cerchi, attualmente occupato
dal Servizio elettorale, dai Servizi demografici e dal laboratorio di
scenografia del Teatro dell’Opera. Ma sarebbe più esatto dire: dov’era
originariamente. Ma andiamo per ordine.
La storia inizia nel lontano1911, quando a Roma si tenne la grande
Esposizione per i 50 anni di Roma capitale. In quel contesto, alle terme
di Diocleziano venne tenuta una mostra dedicata alle province
dell’Impero romano, con calchi provenienti da tutte le parti d’Europa,
Asia e Africa. Tutto questo materiale fu comprato dal Comune di Roma e
Quirino Giglioli ne fece sotto la sua direzione un museo permanente.
Museo dell’Impero Romano che fu prima ospitato nei modesti spazi dell’ex
convento di Sant’Ambrogio alla Massima (in Ghetto), successivamente nel
1927 negli spazi dismessi dalla Pantanella, in quel complesso edilizio
addossato a Santa Maria in Cosmedin che ora ospita vari servizi del
Comune di Roma. Per la cronaca, sul frontone dell’Ufficio elettorale c’è
ancora scritto ben leggibile “Palazzo dei Musei”. Ma la chiave di volta
la diede la Mostra Augustea della Romanità, proposta dallo stesso
Giglioli a Mussolini e tenuta nel 1937 a Palazzo delle Esposizioni,
senza badare a spese e con l’apporto di molte istituzioni straniere.
Stavolta il fine propagandistico non era quello di valorizzare il
contributo e il consenso di tutte le province verso il progetto politico
unitario, ma quello di esaltare la Romanità e l’Impero attraverso la
figura di Augusto, di cui ricorreva il bimillenario. Questa mostra ebbe
un successo enorme: un milione di visitatori in un anno, che per l’epoca
non era poco. Ne restano il catalogo ufficiale e l’archivio. E’ evidente
una forte impronta ideologica nell’allestimento, ma è anche sorprendente
la quantità e qualità del materiale esposto: modellini, calchi,
ricostruzioni, non ultimo l’enorme plastico di Roma imperiale creato dal
Gismondi e il calco completo della Colonna Traiana, preesistenti alla
mostra. Anche questa volta il materiale fu comprato dal Comune di Roma
(all’epoca, dal Governatorato) per essere stabilizzato in un grande
Museo dell’Impero. L’occasione sarebbe stato il reimpiego del bel
complesso architettonico creato dall’architetto Pietro Aschieri e
finanziato da Umberto Agnelli per l’E42, l’Esposizione mai tenuta per lo
scoppio della guerra, ma i cui edifici furono ereditati dall’attuale
EUR. Solo successivamente, negli anni Cinquanta, l’Impero essendo ormai
un lontano ricordo di un sogno infranto, il museo aprì timidamente i
battenti, inizialmente sotto la direzione di Carlo Pietrangeli. In
questo modo, pallido ritratto di se stesso, scenografia di un film mai
girato, il museo sopravvisse per i successivi cinquant’anni col nome di
Museo della Civiltà Romana.
Per chi ci ha lavorato, è stata un’esperienza desolante. A parte il
plastico del Gismondi (pieno di polvere), tutto il resto del materiale
esposto sembra non avere una strutturazione precisa. Anche se qualche
collega dice il contrario, non esiste una cartellonistica decente e le
didascalie degli anni Trenta sono mischiate a quelle moderne, in una
confusione grafica e ideologica. I preziosi modellini d’epoca non sono
protetti da teche di plexiglas; i ragazzini toccano tutto e il personale
d’inverno soffre il freddo per l’ampiezza degli ambienti, difficilmente
riscaldabili. Ricordo che nel 1994 per la mostra Militaria (SME) furono
aperte tutte le sale dalla mattina alla sera sette giorni su sette, ma è
anche vero che l’Esercito ci prestò una cinquantina di soldati di leva.
Oggi è difficile persino seguire un itinerario, visto che le sale si
rincontrano a casaccio e la metà sono chiuse. Non esiste una sala
convegni perché nessuno ha mai pensato ad allestirne una e un grande
spazio all’ingresso è ora occupato dal nuovo Planetario, vero corpo
estraneo nel museo e appaltato ad altri. Ma pur con tutte queste
iniziative, il museo non riesce a contare più di 12.000 presenze
all’anno, per la maggior parte scuole che entrano gratis, altrimenti il
biglietto costa ben 8 euro. Questo è il motivo per cui l’appalto per la
libreria è andato deserto due volte e la terza volta chi si è accollato
il rischio d’impresa ha dovuto chiudere dopo due anni. Ma pochi sanno
che i sotterranei (spettrali) sono pieni di plastici e calchi pieni di
polvere, in quantità pari al materiale esposto. Aggiungo pure che nel
Museo esiste una collezione enorme di libri e riviste d’epoca che solo
ora si sta cercando di riordinare dopo cinquant’anni di incuria. Unica
reale attività in attivo del Museo è il commercio dei calchi e delle
foto, immagini che, nei libri e riviste dove sono pubblicate, almeno
ricreano una sorta di museo virtuale di continuo ricomposto. L’unica e
ultima esposizione organizzata dal Museo fu quella di Traiano pochi anni
fa, grazie alla dedizione di due funzionarie interne. Esposizione a
costo zero, essendo stata organizzata esclusivamente con i materiali in
magazzino, ma priva di seguito. Si dirà: quel museo costa troppo e rende
troppo poco. Ma non è un problema esclusivamente economico: è un
problema ideologico. Investimenti a parte, nel progetto iniziale il
Museo dell’Impero Romano sarebbe stato perlomeno un buon Museo Fascista;
ora è invece il Museo del Nulla, un esempio da manuale di
de-significazione progressiva, di perdita di senso. Quel museo può
sopravvivere solo con un’Idea forte, mentre la sua gestione è stata
invece caratterizzata da una continua mediocrità. Fino a farne un Museo
Zen.
Marco Pasquali
10 febbraio 2005
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