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2005

Bordline - Riflessioni
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Sommario


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INDICE


PERSONALI RIFLESSIONI DI:

LE RIFLESSIONI DI MARCO






 

LE PAROLE DELLA GUERRA

Il filosofo austriaco Wittgenstein affermava che alle parole corrispondono le cose. Il problema è che descrivere la guerra non è pura questione di semantica, ma include nel discorso categorie diverse, prima fra tutte il problema del consenso collettivo. Una dittatura entro certi limiti può permettersi di far le guerre senza chiederlo, una democrazia no. Risultato: se lo Stato vuole che i soldati si arruolino, che i contribuenti li paghino e che le istituzioni li proteggano giuridicamente quando sparano, si muove inevitabilmente una macchina ideologica e mediatica che ha il compito di spiegare ai cittadini le origini e la natura di una crisi e i buoni motivi di un intervento militare. Si tratta in fondo di spiegare e giustificare fini e mezzi della politica estera, dando per scontato che lo Stato o il Governo sappiano veramente individuare gli interessi della Nazione, e che lo strumento militare sia veramente l’ultima ratio per farvi fronte.

Questa è in genere la situazione di partenza. Se poi gli avvenimenti prendono una piega diversa dal previsto – cosa frequente in ogni guerra - si assiste ad una serie di slittamenti linguistici progressivi, tutti protesi ad accettare una nuova realtà e a farla contemporaneamente accettare agli altri. Attualmente, un esempio da manuale è costituito dalla nomenclatura internazionale usata per definire l’opposizione collettiva alle forze militari straniere presenti in Iraq e in Afghanistan: in ordine di tempo si va da terroristi a guerriglieri, oppure si usa il collettivo (e più generico) resistenza. L’unica parola che sembra in disuso è partigiani, parola in Italia ormai storicizzata. Si veda invece il linguaggio usato dall’opposizione: http://www.iraqiresistance.info: fa volentieri a meno del politically correct.

In Italia però il lessico militare si complica in modo speciale. Un esercito che per anni ha dovuto persino giustificare la propria esistenza, una volta proiettato in modo spesso a-strategico per mezzo mondo, inviato cioè senza un fine politico preciso se non quello di un presenzialismo esasperato, ha trovato un compromesso linguistico nel concetto (peraltro complesso) di missione di pace, a sua volta un sottoprodotto dell’assai sibillina ingerenza umanitaria. Difficile per la gente comune capire perché una missione umanitaria debba comportare l’uso delle armi; tanto più arduo è capire la differenza tra una missione di Peace-keeping e una di Peace-enforcing. E’ bene allora spiegare che la prima forma d’intervento, traducibile come mantenimento della pace, non prevede, a differenza della seconda, un’azione attiva ed energica – e quindi più rischiosa – per disarmare o pacificare le fazioni. Ma il problema è che una forza militare di interposizione – come quella che manteniamo in Kosovo - può trovarsi improvvisamente nello stesso mese e nella stessa area a dover combattere in una zona e a limitarsi a sorvegliarne un’altra, com’è in effetti successo l’altro anno. E allora come chiarmarla, Peace-keeping o Peace-enforcing?

L’unica risposta logica è convincersi che dietro alla linguistica ci sono la politica e il diritto. Ricordo che in Somalia nel 1992 la definizione giuridica della missione internazionale fu cambiata nel giro di mezzo pomeriggio dal comando americano e comunicata a noi italiani all’improvviso, col risultato di ritrovarci a fare la guerra vera senza poterlo dire apertamente (ciò avrebbe infatti violato l’articolo 11 della Costituzione) e senza neanche esser preparati a farla, tant’è vero che avemmo i primi morti in combattimento dopo cinquant’anni. Questo porta il governo di turno ad acrobazie linguistiche che evitano che comunque si parli di guerra, combattimento, azione offensiva. Nel 1993 i nostri aerei bombardavano la Serbia, ma ufficialmente era ricognizione. Soldati ed ufficiali in genere sono più sinceri: parlandone con loro neanche a porte chiuse, quella in Irak loro la definiscono una missione di guerra, magari non combat, ma comunque di guerra: il contesto in cui si svolge la missione di pace tesa a favorire la ricostruzione del paese (obiettivo politico ufficialmente dichiarato) è condotta in condizioni tali da prevedere anche il combattimento. Difensivo, per carità. Solo che in guerra le condizioni ambientali possono anche peggiorare al punto da giustificare una reazione offensiva o almeno controffensiva: ricordo che l’altro anno, per riaprire al traffico un ponte sull’Eufrate dopo la rivolta dell’imam sciita Mutk’al Sadr i bersaglieri sono dovuti comunque passare alle maniere forti e il LIC (Low Intensità Conflict, conflitto a bassa intensità, altro bel termine) è diventato per due ore l’inferno. Quando poi Prodi oggi chiama i nostri soldati in Irak forze di occupazione, il caos linguistico aumenta, ma perché ad esser poco chiara è la realtà. Paradossalmente, ad esserne penalizzati sono proprio i soldati: pur soggetti al codice militare di guerra quando sono in missione (secondo lo standard giuridico alleato), se la missione è definita di pace non è prevista l’applicazione di alcune leggi. Tanto per dirne una, ai nostri soldati morti a Nassirya non può esser data nessuna medaglia al valor militare in quanto non era missione di guerra, almeno sul piano giuridico e istituzionale.

Ma alla fine di questo succinto discorso sul lessico di guerra italiano, resta tuttora una curiosa zona d’ombra: la descrizione verbale dei terroristi da parte delle italiane rapite in Iraq e in Afghanistan: parlo delle due Simone, di Giuliana Sgrena, di Clementina Cantoni. I terroristi? Educatissimi. Rispettosi delle donne. Chi erano? Non si sa e non si può dire. Però erano veramente educati. Ci hanno regalato pure il Corano. Parole ben diverse da quelle dell’industriale australiano rapito e poi rilasciato, che – molto meno complessato - ha promesso una taglia sulla banda dei rapitori. Oppure si leggano i termini da caserma con cui Andy McNab (autore di Pattuglia Bravo Due Zero) descrive gli iracheni da cui nel 1991 è stato preso prigioniero di guerra e poi torturato. Sarà pure un soldataccio, ma almeno è sincero.

Marco Pasquali
2 settembre 2005