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PERSONALI RIFLESSIONI DI:
LE RIFLESSIONI DI
MARCO
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LE PAROLE DELLA GUERRA Il filosofo austriaco Wittgenstein affermava che alle parole
corrispondono le cose. Il problema è che descrivere la guerra non è pura
questione di semantica, ma include nel discorso categorie diverse, prima
fra tutte il problema del consenso collettivo. Una dittatura entro certi
limiti può permettersi di far le guerre senza chiederlo, una democrazia
no. Risultato: se lo Stato vuole che i soldati si arruolino, che i
contribuenti li paghino e che le istituzioni li proteggano
giuridicamente quando sparano, si muove inevitabilmente una macchina
ideologica e mediatica che ha il compito di spiegare ai cittadini le
origini e la natura di una crisi e i buoni motivi di un intervento
militare. Si tratta in fondo di spiegare e giustificare fini e mezzi
della politica estera, dando per scontato che lo Stato o il Governo
sappiano veramente individuare gli interessi della Nazione, e che lo
strumento militare sia veramente l’ultima ratio per farvi fronte.
Questa è in genere la situazione di partenza. Se poi gli avvenimenti
prendono una piega diversa dal previsto – cosa frequente in ogni guerra
- si assiste ad una serie di slittamenti linguistici progressivi, tutti
protesi ad accettare una nuova realtà e a farla contemporaneamente
accettare agli altri. Attualmente, un esempio da manuale è costituito
dalla nomenclatura internazionale usata per definire l’opposizione
collettiva alle forze militari straniere presenti in Iraq e in
Afghanistan: in ordine di tempo si va da terroristi a guerriglieri,
oppure si usa il collettivo (e più generico) resistenza. L’unica parola
che sembra in disuso è partigiani, parola in Italia ormai storicizzata.
Si veda invece il linguaggio usato dall’opposizione:
http://www.iraqiresistance.info: fa volentieri a meno del
politically correct.
In Italia però il lessico militare si complica in modo speciale. Un
esercito che per anni ha dovuto persino giustificare la propria
esistenza, una volta proiettato in modo spesso a-strategico per mezzo
mondo, inviato cioè senza un fine politico preciso se non quello di un
presenzialismo esasperato, ha trovato un compromesso linguistico nel
concetto (peraltro complesso) di missione di pace, a sua volta un
sottoprodotto dell’assai sibillina ingerenza umanitaria. Difficile per
la gente comune capire perché una missione umanitaria debba comportare
l’uso delle armi; tanto più arduo è capire la differenza tra una
missione di Peace-keeping e una di Peace-enforcing. E’ bene allora
spiegare che la prima forma d’intervento, traducibile come mantenimento
della pace, non prevede, a differenza della seconda, un’azione attiva ed
energica – e quindi più rischiosa – per disarmare o pacificare le
fazioni. Ma il problema è che una forza militare di interposizione –
come quella che manteniamo in Kosovo - può trovarsi improvvisamente
nello stesso mese e nella stessa area a dover combattere in una zona e a
limitarsi a sorvegliarne un’altra, com’è in effetti successo l’altro
anno. E allora come chiarmarla, Peace-keeping o Peace-enforcing?
L’unica risposta logica è convincersi che dietro alla linguistica ci
sono la politica e il diritto. Ricordo che in Somalia nel 1992 la
definizione giuridica della missione internazionale fu cambiata nel giro
di mezzo pomeriggio dal comando americano e comunicata a noi italiani
all’improvviso, col risultato di ritrovarci a fare la guerra vera senza
poterlo dire apertamente (ciò avrebbe infatti violato l’articolo 11
della Costituzione) e senza neanche esser preparati a farla, tant’è vero
che avemmo i primi morti in combattimento dopo cinquant’anni. Questo
porta il governo di turno ad acrobazie linguistiche che evitano che
comunque si parli di guerra, combattimento, azione offensiva. Nel 1993 i
nostri aerei bombardavano la Serbia, ma ufficialmente era ricognizione.
Soldati ed ufficiali in genere sono più sinceri: parlandone con loro
neanche a porte chiuse, quella in Irak loro la definiscono una missione
di guerra, magari non combat, ma comunque di guerra: il contesto in cui
si svolge la missione di pace tesa a favorire la ricostruzione del paese
(obiettivo politico ufficialmente dichiarato) è condotta in condizioni
tali da prevedere anche il combattimento. Difensivo, per carità. Solo
che in guerra le condizioni ambientali possono anche peggiorare al punto
da giustificare una reazione offensiva o almeno controffensiva: ricordo
che l’altro anno, per riaprire al traffico un ponte sull’Eufrate dopo la
rivolta dell’imam sciita Mutk’al Sadr i bersaglieri sono dovuti comunque
passare alle maniere forti e il LIC (Low Intensità Conflict, conflitto a
bassa intensità, altro bel termine) è diventato per due ore l’inferno.
Quando poi Prodi oggi chiama i nostri soldati in Irak forze di
occupazione, il caos linguistico aumenta, ma perché ad esser poco chiara
è la realtà. Paradossalmente, ad esserne penalizzati sono proprio i
soldati: pur soggetti al codice militare di guerra quando sono in
missione (secondo lo standard giuridico alleato), se la missione è
definita di pace non è prevista l’applicazione di alcune leggi. Tanto
per dirne una, ai nostri soldati morti a Nassirya non può esser data
nessuna medaglia al valor militare in quanto non era missione di guerra,
almeno sul piano giuridico e istituzionale.
Ma alla fine di questo succinto discorso sul lessico di guerra italiano,
resta tuttora una curiosa zona d’ombra: la descrizione verbale dei
terroristi da parte delle italiane rapite in Iraq e in Afghanistan:
parlo delle due Simone, di Giuliana Sgrena, di Clementina Cantoni. I
terroristi? Educatissimi. Rispettosi delle donne. Chi erano? Non si sa e
non si può dire. Però erano veramente educati. Ci hanno regalato pure il
Corano. Parole ben diverse da quelle dell’industriale australiano rapito
e poi rilasciato, che – molto meno complessato - ha promesso una taglia
sulla banda dei rapitori. Oppure si leggano i termini da caserma con cui
Andy McNab (autore di Pattuglia Bravo Due Zero) descrive gli iracheni da
cui nel 1991 è stato preso prigioniero di guerra e poi torturato. Sarà
pure un soldataccio, ma almeno è sincero. Marco Pasquali
2 settembre 2005
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