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PERSONALI RIFLESSIONI DI:
LE RIFLESSIONI DI
MARCO
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LEZIONI DIMENTICATE
Quando uno dei bersaglieri feriti prima di Pasqua è tornato a Roma, ha
detto al giornalista di credere ancora nella propria missione, che la
gente irachena era con loro e che le violenze erano dovute a gente
venuta da fuori. Quel soldato era sicuramente in buona fede, ma le cose
come stanno realmente? Per quelli dell’età mia quanto avviene in questi
giorni in Iraq ricorda molto il Vietnam, e precisamente l’offensiva del
Tet (1968), quando la rivolta scoppiata contemporaneamente in più città
del Vietnam costrinse l’esercito americano a una pesantissima
controffensiva casa per casa nella città imperiale di Hué. I morti
furono migliaia, le città furono riprese, ma fu allora chiaro che la
soluzione politica era ancora lontana: zone e città ritenute pacificate
non lo erano affatto, la gente non era ostile ai Vietcong, anzi! parti
politiche finora aliene (comunisti e buddisti) si saldavano insieme, le
armi erano dappertutto e nessun soldato americano era al sicuro. E
soprattutto: anche se animati dalle migliori intenzioni, gli stranieri
non erano più ospiti graditi.
Ma il Vietnam non era una guerra italiana. Allora torniamo nel 1911, in
Libia, nell’oasi di Sciara Sciat: neanche a farlo apposta, di presidio è
lo stesso reparto ora duramente impegnato a Nassirya: l’11° reggimento
dei bersaglieri. Erano venuti come liberatori, portavano la civiltà e
non si aspettavano l’improvvisa rivolta della popolazione locale (vedi
la voce Sciara Sciat cercando su www.arianna.it). Ebbero molte perdite –
quasi 250 uomini – e per ristabilire l’ordine usarono il pugno di ferro
e ne seguì un massacro. La vicenda è stata oggetto ora di esaltazione
nazionale, ora di revisione storica, ma il punto è questo: si era
sottovalutata la situazione reale, superficialmente analizzata sulla
base di interessi economici, documenti mal selezionati e proiezioni
politiche prive di una reale conoscenza della cultura locale. Niente di
strano che i soldati reagissero con rabbia: si sentivano traditi. Ma
quello che avvenne a Sciara Sciat è il classico esempio su cui sono
inciampati tutti gli eserciti coloniali, dal primo all’ultimo: un mezzo
disastro dovuto a una conoscenza ambigua della situazione locale, più
una carenza politica generale. Ma nel 1911 non c’erano i mezzi di
informazione attuali e la maggior parte della gente era poco più che
analfabeta, per cui possiamo capire i facili entusiasmi seguiti dallo
sgomento generale. Ma oggi? Proviamo ad analizzare la situazione: si
avevano tutte le informazioni necessarie per intervenire in Iraq? Le
informazioni sono correttamente raccolte e analizzate? E quante di esse
vengono diffuse al pubblico?
Alla prima domanda non è facile rispondere: le armi di distruzione di
massa ancora non sono state trovate. Questo non significa che non
esistessero o che non siano state spostate per tempo. Fatto sta che in
un anno di ricerche di queste armi non c’è traccia convincente.
Supponendo che la classe politica americana dirigente non abbia mentito
al suo popolo, va dunque analizzato il sistema con cui le informazioni
vengono raccolte ed elaborate; e con questo affrontiamo la seconda
domanda. La polemica è attuale e feroce, ma necessaria. Nella realtà
verso la CIA convergono più fonti di informazione e il cuore del sistema
sono le migliaia di interpreti e analisti che fanno capo anche ad
istituti di ricerca, università, centri di ricerca di politica
internazionale, associazioni governative e non governative. Questo
sistema funzionava bene all’epoca della Guerra Fredda perché il nemico
era più strutturato e l’infiltrazione più facile, ma ora la complessità
della situazione internazionale richiede mezzi più diversificati ed
efficaci: si è visto più volte che negli ultimi anni la raccolta delle
informazioni strategiche si è rivelata insufficiente e l’analisi
superficiale. Ma è proprio sulla base di queste informazioni strutturate
che la classe dirigente americana prende le decisioni strategiche, se ne
assume la responsabilità politica e militare e chiede l’appoggio degli
elettori.
Per rispondere invece alla terza domanda ho seguito gli avvenimenti di
Nassirya, Falluja e Kut (settimana di Pasqua). Nei nostri telegiornali
si è parlato molto dei nostri soldati, ma si è appena accennato ai
pesantissimi scontri affrontati dagli americani nei centri abitati di
Falluja e Kut; poche le immagini, anche se chi ha visto Blackhawk Down
può farsi un’idea di cosa significa oggi combattere in un centro urbano.
Comunque c’è sempre il sito del Comando militare americano
(http://www.centcom.mil/). Viceversa, l’edizione internazionale del sito
web dell’agenzia Al-Jazeera (http://www.aljazeera.com/fae198.asp)
esponeva una lunga teoria di foto di bambini rimasti uccisi negli
scontri, più una serie di foto trionfalistiche. Ma – propaganda a parte
- forniva anche una rassegna stampa araba e internazionale completa dei
profili biografici dei protagonisti civili e religiosi. Anche se non
equidistante, il sito mi ha dato comunque una serie di informazioni che
invano avrei trovato nel sito Ansa (www.ansa.it); ne ho ricavato
l’impressione che si sta saldando una pericolosa alleanza tattica fra
sunniti e sciiti e che persino la componente laica dei professionisti
sta diventando più cauta nei contatti con gli stranieri. Nel frattempo
riapro il nostro telegiornale: ora che forse ci sono ostaggi italiani,
veniamo a sapere che in Iraq ci sono dai 20 ai 30.000 fra pretoriani e
guardaspalle privati, un vero esercito di mercenari sfuggito finora a
qualsiasi censimento. Quanto altro sapremo solo quando le cose vanno
male?
Marco Pasquali
10 aprile 2004
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