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2004

Bordline - Riflessioni
Beni Culturali - Bordline - Riflessioni
Sommario


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INDICE


PERSONALI RIFLESSIONI DI:

LE RIFLESSIONI DI MARCO




 

LEZIONI DIMENTICATE

Quando uno dei bersaglieri feriti prima di Pasqua è tornato a Roma, ha detto al giornalista di credere ancora nella propria missione, che la gente irachena era con loro e che le violenze erano dovute a gente venuta da fuori. Quel soldato era sicuramente in buona fede, ma le cose come stanno realmente? Per quelli dell’età mia quanto avviene in questi giorni in Iraq ricorda molto il Vietnam, e precisamente l’offensiva del Tet (1968), quando la rivolta scoppiata contemporaneamente in più città del Vietnam costrinse l’esercito americano a una pesantissima controffensiva casa per casa nella città imperiale di Hué. I morti furono migliaia, le città furono riprese, ma fu allora chiaro che la soluzione politica era ancora lontana: zone e città ritenute pacificate non lo erano affatto, la gente non era ostile ai Vietcong, anzi! parti politiche finora aliene (comunisti e buddisti) si saldavano insieme, le armi erano dappertutto e nessun soldato americano era al sicuro. E soprattutto: anche se animati dalle migliori intenzioni, gli stranieri non erano più ospiti graditi.

Ma il Vietnam non era una guerra italiana. Allora torniamo nel 1911, in Libia, nell’oasi di Sciara Sciat: neanche a farlo apposta, di presidio è lo stesso reparto ora duramente impegnato a Nassirya: l’11° reggimento dei bersaglieri. Erano venuti come liberatori, portavano la civiltà e non si aspettavano l’improvvisa rivolta della popolazione locale (vedi la voce Sciara Sciat cercando su www.arianna.it). Ebbero molte perdite – quasi 250 uomini – e per ristabilire l’ordine usarono il pugno di ferro e ne seguì un massacro. La vicenda è stata oggetto ora di esaltazione nazionale, ora di revisione storica, ma il punto è questo: si era sottovalutata la situazione reale, superficialmente analizzata sulla base di interessi economici, documenti mal selezionati e proiezioni politiche prive di una reale conoscenza della cultura locale. Niente di strano che i soldati reagissero con rabbia: si sentivano traditi. Ma quello che avvenne a Sciara Sciat è il classico esempio su cui sono inciampati tutti gli eserciti coloniali, dal primo all’ultimo: un mezzo disastro dovuto a una conoscenza ambigua della situazione locale, più una carenza politica generale. Ma nel 1911 non c’erano i mezzi di informazione attuali e la maggior parte della gente era poco più che analfabeta, per cui possiamo capire i facili entusiasmi seguiti dallo sgomento generale. Ma oggi? Proviamo ad analizzare la situazione: si avevano tutte le informazioni necessarie per intervenire in Iraq? Le informazioni sono correttamente raccolte e analizzate? E quante di esse vengono diffuse al pubblico?

Alla prima domanda non è facile rispondere: le armi di distruzione di massa ancora non sono state trovate. Questo non significa che non esistessero o che non siano state spostate per tempo. Fatto sta che in un anno di ricerche di queste armi non c’è traccia convincente. Supponendo che la classe politica americana dirigente non abbia mentito al suo popolo, va dunque analizzato il sistema con cui le informazioni vengono raccolte ed elaborate; e con questo affrontiamo la seconda domanda. La polemica è attuale e feroce, ma necessaria. Nella realtà verso la CIA convergono più fonti di informazione e il cuore del sistema sono le migliaia di interpreti e analisti che fanno capo anche ad istituti di ricerca, università, centri di ricerca di politica internazionale, associazioni governative e non governative. Questo sistema funzionava bene all’epoca della Guerra Fredda perché il nemico era più strutturato e l’infiltrazione più facile, ma ora la complessità della situazione internazionale richiede mezzi più diversificati ed efficaci: si è visto più volte che negli ultimi anni la raccolta delle informazioni strategiche si è rivelata insufficiente e l’analisi superficiale. Ma è proprio sulla base di queste informazioni strutturate che la classe dirigente americana prende le decisioni strategiche, se ne assume la responsabilità politica e militare e chiede l’appoggio degli elettori.

Per rispondere invece alla terza domanda ho seguito gli avvenimenti di Nassirya, Falluja e Kut (settimana di Pasqua). Nei nostri telegiornali si è parlato molto dei nostri soldati, ma si è appena accennato ai pesantissimi scontri affrontati dagli americani nei centri abitati di Falluja e Kut; poche le immagini, anche se chi ha visto Blackhawk Down può farsi un’idea di cosa significa oggi combattere in un centro urbano. Comunque c’è sempre il sito del Comando militare americano (http://www.centcom.mil/). Viceversa, l’edizione internazionale del sito web dell’agenzia Al-Jazeera (http://www.aljazeera.com/fae198.asp) esponeva una lunga teoria di foto di bambini rimasti uccisi negli scontri, più una serie di foto trionfalistiche. Ma – propaganda a parte - forniva anche una rassegna stampa araba e internazionale completa dei profili biografici dei protagonisti civili e religiosi. Anche se non equidistante, il sito mi ha dato comunque una serie di informazioni che invano avrei trovato nel sito Ansa (www.ansa.it); ne ho ricavato l’impressione che si sta saldando una pericolosa alleanza tattica fra sunniti e sciiti e che persino la componente laica dei professionisti sta diventando più cauta nei contatti con gli stranieri. Nel frattempo riapro il nostro telegiornale: ora che forse ci sono ostaggi italiani, veniamo a sapere che in Iraq ci sono dai 20 ai 30.000 fra pretoriani e guardaspalle privati, un vero esercito di mercenari sfuggito finora a qualsiasi censimento. Quanto altro sapremo solo quando le cose vanno male?

Marco Pasquali
10 aprile 2004