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PERSONALI RIFLESSIONI DI:

LE RIFLESSIONI DI MARCO



FILM DI GUERRA

Un aspetto per certi versi sorprendente è la rinascita di un genere ormai stanco: i film di guerra. Dopo la stagione d'oro degli anni '80 sulla guerra del Vietnam, Hollywood aveva lasciato cadere il discorso. L'unico film sulla Guerra del Golfo (Four Kings) sembra più un film d'avventura. Produrre oggi un film di guerra del resto non è facile: esso richiede forti investimenti e soprattutto a monte dev'esserci un'ideologia credibile e condivisa. Vorremmo tanto sbagliarci, ma l'impressione è che l'ondata recente di film di guerra serva soprattutto a ricompattare la nazione e preparare tutti quanti alle imminenti guerre americane.

Salvate il soldato Ryan e La linea rossa hanno rilanciato il genere, parlando della II guerra mondiale ma di fatto lanciando un monito per il futuro immediato. Anomalo rispetto alla tradizione è il successivo Blackhawk down, ambientato durante l'ambigua operazione Restore Hope in Somalia e molto critico per il modo con cui sono state condotte alcune operazioni militari. Tra parentesi il film poteva forse anche riguardarci, ma per il regista gli italiani non esistono affatto.

Ma quest'anno sono stati prodotti anche Windtalkers e We were Soldiers. Ed è su questi ultimi due che vogliamo soffermarci. Il primo è ambientato durante la guerra nel Pacifico, l'altro nel 1965, durante le prime fasi della guerra in Vietnam. Originale l'idea del primo: si utilizzano gli indiani Navajo come trasmettitori e questo salva molti soldati da morte sicura, ma sorge ad un certo punto il dilemma: in casi estremi bisogna salvare il trasmettitore o il codice? La radio è una macchina e si può anche distruggere, ma un trasmettitore è un essere umano. Da qui il dramma che permea tutto il film fra un combattimento e l'altro.

We were Soldiers presenta invece un impianto più tradizionale. C'è un reparto che si addestra in patria e poi viene mandato in guerra, ovviamente privo di esperienza. Si tratta del 7° battaglione del 1° reggimento di cavalleria "Quello di Custer!" - nota costernato il colonnello comandante (Mel Gibson), che all'epoca e per la prima volta usava gli elicotteri; più o meno lo stesso reparto già visto in Apocalypse Now. Siamo nel 1965 e il generale Giap ancora impegna in combattimento grossi reparti, prima di ripiegare su quella tattica elusiva e snervante che alla fine avrebbe esaurito gli americani.

Il reparto viene sbarcato dagli elicotteri nella zona degli altopiani centrali - dove già una colonna mobile francese era stata distrutta dodici anni prima - e senza saperlo si ritrova in bocca a un grosso reparto regolare nemico (NVA) che non aspettava altro. Gli americani, pur valorosi e appoggiati dal fuoco dell'artiglieria e dei loro aerei, rischiano di essere annientati dalle ondate degli esperti e ben guidati soldati vietnamiti e vengono salvati con forti perdite soltanto da altri elicotteri e dagli aerei, che riversano sulle linee nemiche tonnellate di bombe, napalm e migliaia di colpi.

Se infatti il film e anche Windtalkers volevano puntare essenzialmente sui valori del cameratismo, del buon comando e della solidarietà fra commilitoni, allo spettatore italiano piuttosto resta impresso il volume di fuoco sviluppato dall'esercito americano durante il combattimento. In Windtalkers i Marines avanzano coperti addirittura dai grossi calibri delle corazzate e possono chiedere l'appoggio dell'artiglieria e dell'aviazione in ogni momento (nei film americani le radio militari funzionano sempre). In We were soldiers il volume di fuoco delle armi individuali, dei cannoni, degli aerei ed elicotteri è così massiccio e micidiale che rischia ogni tanto di spazzar via anche gli stessi soldati americani, visto che le c.d. bombe intelligenti erano ancora al di là da venire.

Storicamente questo ha permesso indubbiamente di limitare le perdite. Nella II guerra mondiale gli americani hanno avuto 200.000 morti in cinque anni contro i venti milioni dei sovietici (cifra che comprende però anche i civili); in Vietnam sono caduti 58.000 soldati in dieci anni contro 2 milioni di vietnamiti. Nella guerra del Golfo i caduti in azione sono stati meno di 200 - la maggior parte colpita da fuoco amico o perita in incidenti - e la recente guerra contro la Jugoslavia non ha registrato nemmeno un soldato morto in combattimento. La guerra in Afghanistan è un caso a parte, visto che all'assalto - sia pur appoggiati dal fuoco alleato - sono stati mandati i guerrieri locali. E le guerre del futuro saranno simili a questa.

Ma torniamo al film. Ormai il soldato Ryan ci ha abituato alla guerra-spezzatino, alla contaminazione fra horror e fiction, al fucile puntato addosso e al fuoco a bruciapelo con schizzi di sangue e budella in aria. Ma a parte questo, i combattimenti sono realistici e le ricostruzioni storiche accurate. Quanto ai personaggi, il colonnello Moore sta sempre accanto ai soldati ma è un militare tutto di un pezzo e tale è anche il suo ruvido sergente, classico di ogni film di guerra che si rispetti. Ma sono gli unici veterani: tutti gli altri sono giovani e inesperti e si trovano a gestire una situazione più grande di loro e cadono come mosche. Il finale è amaro: il generale NVA sa bene che gli americani pensano di aver vinto ma perderanno, ma il suo paese avrà altre migliaia di morti prima di raggiungere la vittoria. E gli americani non avranno alla fine di quella guerra nessuna parata trionfale. Il colonnello Moore è abbastanza fortunato da tornare a casa e abbracciare la bella moglie e la sua nutrita prole, ma una delle scene più dure del film è proprio la consegna dei telegrammi alle vedove dei caduti, servizio che all'epoca era addirittura affidato ai tassisti di una ditta privata invece che al cappellano militare.

Marco Pasquali