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oltre l'arte
2004

Beni Culturali - Narrativa
bordline contemporanea beni culturali




PERCHÉ  SIAMO IN GUERRA?
di Norman Mailer

Traduzione di Luca Conti

Torino, Einaudi, 2003
103 p. 19 cm
(Einaudi tascabili – Stile libero, 1164)

ISBN 88.06.16708.1
Prezzo euro 7,60

PERCHÉ SIAMO IN GUERRA?

Why are we at War?
Se lo chiede scrittore americano Norman Mailer; ma ora possiamo chiedercelo anche noi e infatti l’edizione italiana segue di pochi mesi quella americana (2003). Mailer in realtà non è la prima volta che si occupa di guerra: di lui ricordo il ben più incisivo Why are we in Vietnam? (1968, trad. it. 1969), seguito da The Armies of the Night. Se il secondo era il brillante resoconto di una famosa marcia della pace, un non-fiction novel dove giornalismo e romanzo erano curiosamente mischiati, Why are we in Vietnam? ricreava un mondo e discuteva una teoria della guerra attraverso il dialogo fra DJ (Disc Jockey / Doctor Jekyll?) ed il suo alter ego Tex Hyde prima di partire per il Vietnam, rievocando un’iniziazione maschile attraverso una caccia al cervo che addirittura anticipava Il Cacciatore. Qui invece leggiamo una serie di saggi sciolti in alcuni punti molto acuti, altre volte ripetitivi, ma privi comunque di quella geniale creatività con cui si scriveva ai tempi del Vietnam. Identica però la conclusione delle due opere, scritte a più di trent’anni una dall’altra: gli Stati Uniti hanno storicamente sviluppato e accumulato una potenza militare ed industriale tale da rendere la guerra una necessità economica, indipendentemente dalla zona strategica di turno dove svilupparla sul terreno. In questo senso, gli Stati Uniti sono sempre in guerra e l’attacco dell’11 settembre 2001 ha solo anticipato magari di cinquant’anni un conflitto che comunque sarebbe avvenuto, vista la destrutturazione del mondo islamico di fronte all’ingresso della modernità e le sue reazioni estreme. La prossima resa dei conti dovrebbe dunque  esser con la Cina, se la rotta di collisione economica e strategica non si componesse in altro modo. Ma in questo campo Mailer non è originale: che l’amministrazione Bush abbia approfittato del catalizzatore tanto generosamente offerto da Al Quaeida,  è risaputo. Più originale è l’analisi di come è stato percepito l’11 settembre dagli Americani: quasi l’immagine avesse letteralmente perforato la televisione, medium che altrimenti smorza la tensione e crea un diaframma fra noi e la realtà che crediamo di vedere in diretta e senza filtri. Inoltre il terrorismo spezza qualsiasi nesso di causa ed effetto: si può morire senza preavviso e senza un reale motivo condiviso dalla comunità; si perde la possibilità di dare un senso alla propria morte. Si frantuma quindi l’ ego, si destruttura un’identità, individuale e collettiva. Da qui la richiesta di protezione che ha spontaneamente unito tutti intorno alla bandiera, e non solo gli americani.
L’altra riflessione importante è sul futuro della democrazia. Mailer è sinceramente e profondamente democratico e – come Plutarco – sa benissimo che le istituzioni politiche non fasciste sono stabili ma basate su equilibri instabili. Le democrazie sono organismi in perenne trasformazione. E nel momento in cui i cittadini fossero disposti a rinunciare a parte delle proprie libertà individuali per combattere meglio il terrorismo, o se un gruppo dirigente fosse capace di mandare la nazione in guerra senza una reale informazione sui rischi e sulle conseguenze, la questione sul futuro della democrazia si pone in modo drammatico. E tale questione ormai riguarda anche noi.
Sull’Islam, poco da dire: Mailer – come tutti gli americani – non lo capisce né lo ama; ne vede solo i lati peggiori: l’oppressione della donna, la chiusura verso l’esterno, il ritardo sociale e la mancanza di democrazia. Arriva anzi a dire che in fondo Israele difende le oligarchie arabe dai palestinesi, mentre l’Islam politico più conservatore ha scientificamente scaricato su Israele le tensioni che altrimenti avrebbero minato i gruppi di potere tirannici che governano gli stati arabi. Tesi forse discutibile, ma coerente con un’idea laica della strategia. Saddam Hussein diventa invece nel libro un personaggio caricaturale: figlio di puttana, furbastro, ma incapace di condurre all’infinito il gioco delle tre carte con gli ispettori dell’ONU. Ma secondo Mailer, non è mai esistito un reale legame fra Saddam e bin Laden, laico il primo e mistico il secondo. In questo l’intuizione di Mailer concorda con le tesi degli analisti internazionali. Sulle armi di sterminio di massa purtroppo si sorvola, a parte una polemica su Hiroshima. Il libro riprende invece quota al momento di cercar di entrare nel cervello di bin Laden. Mailer distingue nettamente i pervertiti dai malvagi. I primi – come i giocatori d’azzardo o i maniaci - alzano sempre la posta senza avere le idee chiare; iniziano un processo senza essere coscienti delle conseguenze finali, gli altri sanno freddamente e in anticipo i risultati che otterranno dal loro operato. E’ una differenza concettuale che dunque pone bin Laden fra i malvagi: se fare del male comporta avere un’idea ben chiara del danno irreparabile che si sta per causare, e tuttavia si va avanti, il terrorismo è un male (pag.22). Ma vale anche la pena – aggiunge Mailer -  di analizzare il problema dal punto di vista del terrorista: lui è convinto di estirpare una piovra che vuole distruggere il suo mondo. Ai suoi occhi, compie dunque un’azione morale. Come si vede, la guerra è appena iniziata.

 Marco Pasquali
marzo 2004