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La Cena in casa di Levi di Paolo Veronese
Il processo riaperto
Autore: Maria Elena Massimi
Editore: Marsilio, 2011, pp. 205

Prezzo: € 30,00
ISBN 978-88-317-1086-2

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Atipica cena in casa di Levi

Un ricco, approfondito ed erudito testo è quello che Maria Elena Massimi ha scritto alcuni anni fa dal titolo: ‘La Cena in casa di Levi di Paolo Veronese’.
Ma perché atipica la definisce l’autrice? Sarà forse perché in questa, delle tante cene, il Veronese ha riportato momenti mai stralciati dal testo evangelico? O forse perché è una cena imbandita nel più indigesto dei menù?
Qua e là riporterò frasi, parole, concetti della Massimi a volte virgolettando a volte facendo mie certe giuste espressioni. Chi legge sappia che questo volume è ricco di pensieri che producono altri pensieri.
Sull’atipicità della cena, c’è da dire anche della presenza di un Cristo passivo circondato da una folla poco credibile per essere una ultima Cena.
La cena in casa di Levi, di Paolo Caliari detto il Veronese nato a Verona nel 1528, venne dipinta nel 1573 per il convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo. Forse l’ultima delle cene da lui dipinte e per la precisione la settima, dopo le Nozze di Cana del Louvre, le quattro cene in casa di Simone e il Convito in casa di Gregorio Magno di Vicenza.

Ma la Cena per i Santi Giovanni e Paolo gli fu fatale, infatti poco più di due mesi e mezzo dopo, il quarantacinquenne pittore veronese dovette presentarsi dinanzi al tribunale inquisitoriale.
Ma per fare cosa? Per spiegare e scolparsi di aver dipinto tale cena? Che cosa significavano alcune figure riportate sulla tela? L’aver dipinto la figura di un uomo che perde sangue dal naso e cosa significhi, il motivo della presenza di un buffone con un pappagallo. Oltre a tante altre richieste gli viene domandato chi veramente sia intervenuto in questa Ultima cena? Il pittore risponde: ‘Cristo e i suoi apostoli’. Quando ha la parola, il Veronese afferma anche: ‘…che i pittori sono soliti prendersi la stessa licenza – la stessa libertà – che si prendono i poeti e i matti…, che … lui d’abitudine inserisce figure d’invenzione’. Gli viene domandato se: ‘…ritenga conveniente far presenziare l’Ultima cena di Cristo a buffoni, ubriachi, tedeschi, nani et similia…’. Ma Paolo Veronese risponde di no aggiungendo anche che li aveva dipinti presupponendo che tutti costoro fossero fuori dallo spazio dove si svolge il banchetto. Nel tentare di discolparsi nomina addirittura Michelangelo che nella Cappella Sistina, con poca riverenza, ha dipinto nuda tutta la corte celeste.
Alla fine però protesta tutta la sua buonafede. Gli verrà richiesto di correggere, entro tre mesi, secondo le indicazioni fornitegli dal tribunale. In effetti si limiterà solamente a cambiare il titolo del dipinto in Cena in Casa di Levi.

Questo incidente di percorso, nella vita del grande pittore, produrrà notorietà al dipinto. Effettivamente risulta comunque essere un bel dipinto, di grandi dimensioni: cm. 1.300 per cm. 500. Una bella composizione eseguita da un vero orchestratore di spazi illusivi con cinquantatrè presenze sceniche.
Veronese, comunque, non ebbe conseguenze dopo l’episodio dell’inquisizione, infatti continuò a lavorare indisturbato per la Serenissima.
La Massimi si interroga a proposito del dipinto su che cosa si stia guardando. Pur rimanendo un mistero è, però, plausibile che si tratti di una Cena Ultima avvenuta in casa Levi. Iconograficamente parlando, Cristo sta comunicando agli apostoli attraverso il gesto sofferente, che incrociandosi con quello dell’apostolo in ginocchioni con le braccia incrociate, esprime la simbologia della missione evangelica: imitazione, ripetizione, rinnovo del sacrificio. Lo storpio simboleggia un’umanità sofferente nel corpo e nell’anima.

Tutta questa folla è all’interno di un ambiente ben costruito con scansioni ritmiche: due scale laterali con colonnine e pilastri che formano le balaustre. La scena si svolge all’interno dell’imponente loggia a tre arcate con quattro colonne corinzie.
Ma troppo lungo sarebbe riportare, anche se in sintesi, le studiate ventisei pagine dove l’autrice seziona e interpreta tutto il soggetto della tela.
Superando il corposo capitolo sul contesto, si arriva ora al significato del dipinto dove il testo evangelico di Luca, il banchetto a casa del fariseo, non è altro che un punto di partenza. Tutto si sviluppa in un discorso articolato, stratificato, infarcito di rimandi e citazioni. La scelta di Luca è basata sull’ambientazione dove l’invettiva del Cristo prende corpo contro i farisei. In fin dei conti la Cena è un’invenzione pura, un vero esempio faticoso nella progettazione. In quel periodo storico serviva un’immagine concepita con quei termini figurativi. Concepita perché appositamente commissionata dai domenicani dei Santi Giovanni e Paolo.

La tela fu richiesta dopo l’incendio che nel 1571 distrusse l’ultima Cena di Tiziano oltre al refettorio, al granaio e alla cantina. Senza temere di essere smentiti, è con molta probabilità che la decisione di affidare a Paolo Veronese l’esecuzione della Cena, sia avvenuta nell’ambiente di coloro che gestivano effettivamente il convento, segnalando l’indirizzo politico e le scelte culturali. E la Massimi è più che precisa su questo punto, la definirei una ragioniera della storia dell’arte. Infatti per risalire chi ebbe un ruolo chiave nell’indirizzare, il Veronese, a tale dipinto, nomina i priori che si sono succeduti dal 1560 al 1680. L’autrice ci racconta una storia che è una pletora di rimandi e congetture che, la chiesa di quel tempo, influenzava l’èlite del governo dei Santi Giovanni e Paolo.

E’ così che il dipinto ne esce fuori come una sorta di manifesto. Un quadro privo di spiccati elementi di sacralità, con motivazioni anche polemiche, al punto che per motivi di decoro non può essere collocato in chiesa, quindi nel refettorio. Il quale essendo ‘…luogo di mensa ordinaria, dove ogni giorno si riunisce l’intera comunità dal priore all’ultimo dei novizi…i frati entrano a due a due e si inchinano di fronte alla Cena.’
Ma il refettorio è anche luogo di mensa straordinaria per banchetti con ospiti esterni, religiosi e laici: vescovi, legati papali, gerarchie domenicane, magistrati della Repubblica, nobili forestieri.
Ultimano, questo intenso testo, i capitoli sul processo vero e proprio, dove la massimi riporta le parole precise pronunciate dall’inquisitore e dal Veronese.

Interessante e ricca lettura.

Paolo Cazzella
o della Joie de Vivre