PALAZZO
VIDONI CAFFARELLI
Editore
Poligrafico dello Stato
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PALAZZO VIDONI CAFFARELLI
A Roma in Corso Vittorio Emanuele, al civico 116, c'è un
imponente edificio con una targa che indica essere la
sede del Dipartimento della Funzione Pubblica della
Presidenza del Consiglio.
Il passante non lo degna di particolare attenzione in
quanto generalmente lo confonde con l'edilizia tardo
ottocentesca che fiancheggia la via, in realtà è un
palazzo di antica origine, conosciuto come Vidoni ma in
origine costruito dai Caffarelli, con una lunga storia
alle spalle. Storia che viene narrata in un bel volume
edito dal Poligrafico dello Stato, a cura del
Dipartimento, con un'ottima veste tipografica, con
interessanti saggi e belle foto degli affreschi che
decorano alcuni saloni.
Quando nacque l'edificio non era unitario ma composto di
vari corpi di fabbrica appartenenti a differenti rami
della famiglia Caffarelli, agli Alberini e ad altri.
Attraverso passaggi ereditari avvenuti ai primi del '500
Bernardino Caffarelli impostò la ricostruzione di un
nuovo complesso servendosi di un architetto della cerchia
raffaellesca, forse identificabile con Lorenzetto Lotto,
più noto con il solo nome di battesimo; questi, allievo
dell'Urbinate a cui la leggenda attribuisce il progetto
edilizio, iniziò la costruzione partendo da un grande
basamento in bugnato, in tufo sperone di colore scuro,
sull'attuale via del Sudario dove allora prospettava la
facciata principale del palazzo. I lavori non si
arrestarono per due secoli tra ristrutturazioni e
ampliamenti fino al '700 inoltrato quando i Caffarelli,
in grave dissesto finanziario e proprietari di un altro
palazzo sul Campidoglio, alienarono l'immobile al
Cardinal Stoppani che inglobò altre piccole case
circostanti modificando l'arredamento e la decorazione di
alcune sale utilizzando l'opera dell'architetto Nicola
Giansimoni e di alcuni pittori tardo settecenteschi.
Successivamente subentrò il Cardinale Vidoni, che dette
il nome al palazzo, che continuò l'opera di
miglioramento e, a fine ottocento, i principi Giustiniani
Bandini; in quest'epoca parte dell'edificio fu
espropriato e demolito per l'apertura del Corso Vittorio
e fu costruita una nuova facciata in stile, analoga
all'antica su via del Sudario, per opera dell'archotetto
Francesco Settimj; anche l'ingresso principale fu
spostato sul nuovo e più importante asse viario.
Dopo altri passaggi di proprietà, nei tardi anni Venti
del novecento il palazzo fu acquistato dal Partito
Nazionale Fascista che lo battezzò Palazzo del Littorio
e lo destinò a sede della Segreteria del partito; nel
dopoguerra ebbe varie utilizzazioni nell'ambito della
Pubblica Amministrazione fino ad arrivare nel 1979
all'attuale detentore. Le varie traversie hanno svuotato
il grande edificio di quasi tutto il suo arredo mobile e
molto danneggiato quello parietale ma ancora sopravvivono
affreschi e stucchi in vari ambienti. C'è una grande
sala, detta di Carlo V°, dal nome dell'imperatore che si
vuole abbia alloggiato nel palazzo nel 1536, con un
fregio affrescato con storie della sua vita da un ignoto
ma abilissimo pittore di metà '500, e poi l'adiacente
contemporanea sala con un ciclo di dipinti con la storia
biblica di Tobia. Al '700 risale la decorazione di altri
locali dovuta ai Cardinali Stoppani e Vidoni; sono
affreschi a cavallo tra rococò e neoclassico e si devono
ai pittori Nicola Lapiccola, che dipinse la CoffeHouse,
Tommaso Conca autore di tre tele inserite nel soffitto
ligneo della Sala delle Udienze e raffiguranti Pittura,
Scultura, Architettura, Ludovico Mazzanti che appose al
soffitto una tela con un Mercurio e Bernardino Nocchi che
affrescò un piccolo ambiente dove erano conservati
reperti archeologici detti "Fasti Prenesti".
Un grande salone al piano nobile chiamato Salone Stoppani
ha un grande fregio dipinto a monocromo dorato con
medaglioni e telamoni di autore ed epoca ignoti. Un
grande cortile con due statue romane e alcune lapidi e
bassorilievi completa la descrizione di questo gioiello
assolutamente ignoto e purtroppo poco visitabile. Il bel
volume permette però di documentarsi a sufficienza.
Roberto
Filippi
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