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2003

Beni Culturali - Bordline
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SOLDATI DI PACE ?

In questo momento l'Italia sta vivendo uno dei periodi più duri della sua storia e ci stiamo in mezzo tutti. E tutti gli italiani si sono raccolti attorno alla bandiera nazionale, hanno fatto ore di fila al Vittoriano o si sono assiepati ai funerali di stato nella Basilica di San Paolo davanti a quelle bare avvolte nel tricolore. Ero presente anch’io e posso dire che c'era tanta dignità, qualità rara nel nostro paese. Anche ieri giovani coppiette di provincia – i discendenti dei contadini morti sull’Isonzo e a Caporetto - mi chiedevano dov’era il Vittoriano, monumento chiuso fino a pochi anni fa. Ma ci si chiede perché tanta partecipazione e tanta enfasi solo adesso: in fondo negli ultimi vent’anni sono morti quasi duecento fra militari e civili nelle varie missioni all’estero, ma finora nessuno ci aveva fatto caso più di tanto. Dov’è la novità? Intanto, era dalla strage di Kindu (Congo belga, 1961) che non morivano tanti soldati insieme. Una guerra inizia quando non ci si ricorda più dei nomi, ma prevale l’aspetto collettivo della tragedia. Ma c’è di più: per noi italiani è la fine dell’innocenza.

Mi spiego meglio. Il nostro esercito non combatte da più di cinquant’anni: la storia e gli equilibri politici della Guerra Fredda e le crisi degli anni Novanta prima hanno reso marginale la presenza politica e militare dell’Italia, in seguito l’hanno specializzata. A far la guerra ci pensano da anni eserciti meglio addestrati e preparati – quello americano, quello inglese, la Legione straniera – mentre a noi italiani vengono assegnati settori meno esposti e soprattutto un tipo di missioni che ormai sappiamo fare anche bene, le c.d. operazioni di peacekeeping o mantenimento della pace, tutte quelle legate alla ricostruzione civile dei paesi disastrati da guerre ed altre calamità umane e naturali. Non è cosa da poco: se dieci anni fa avevamo in giro 3.000 soldati, oggi ne abbiamo 10.000 sparsi su un’area molto lontana dal territorio nazionale. Abbiamo nel tempo concluso bene una serie di missioni anche difficili (Mozambico, Timor Est, Afghanistan) e manteniamo nei Balcani una forza di stabilizzazione che garantisce indirettamente la sicurezza e il benessere di tutti gli italiani. Chi pensava ancora vent’anni fa che un esercito professionale fosse un pericolo per le istituzioni democratiche si è lentamente adattato alla novità. Su questi volontari si è fatta molta retorica, in realtà essi sono per la maggior parte disoccupati meridionali pagati comunque meglio di un borsista universitario, rischio a parte s'intende. Ho conosciuto ragazzi di venticinque anni con già quattro o cinque missioni alle spalle e l'esperienza di un veterano. Sanno trattare con i civili, non sono razzisti e si fanno rispettare senza prepotenze. E soprattutto sono mandati a ricostruire società devastate, quindi combattono soltanto se costretti a difendersi oppure in circostanze eccezionali, come in Somalia nel 1992.

Tutto questo non deve ingannare però l’opinione pubblica: non sono missioni di guerra – leggi: di combattimento – ma sono spesso missioni che operano dove esiste uno stato di guerra. Si mandano i soldati non per sostituire la Croce Rossa, ma per proteggerla. Ma un esercito prima di difendere gli altri deve per prima cosa difendere se stesso, quindi deve mantenere livelli decenti di addestramento e comando ed essere equipaggiato di conseguenza. Chi è tornato nell’esercito rimane sorpreso dalla qualità attuale dei materiali rispetto anche a dieci anni fa e in effetti è stato fatto uno sforzo enorme. Ma uno sforzo enorme è stato fatto anche per legittimare questo tipo di operazioni: da qui l’immagine diffusa fino alla nausea del buon soldato italiano di pace che non usa il fucile, che sfama i bambini, aiuta gli anziani, cura i malati e ricostruisce ponti e ferrovie. In realtà l’unica funzione esclusiva del soldato è il combattimento – tutto il resto si può fare anche senza divisa e senz’armi – ma è proprio l’unica ufficialmente rimossa. Nella realtà quando necessario si spara e si è anche sparato, né sempre le missioni prevedevano un’impostazione assolutamente difensiva (è il caso dell’Afghanistan), ma si è preferito sorvolare e insistere politicamente sull’immagine degli italiani su cui nessuno spara perché son bravi e aiutano la gente. Con il risultato che alla fine ci hanno creduto pure i soldati e hanno abbassato la guardia. Ora abbiamo tutti aperto gli occhi.

Marco Pasquali
 3 dicembre 2003