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SOLDATI
DI PACE ?
In questo momento l'Italia sta vivendo uno dei periodi più duri della
sua storia e ci stiamo in mezzo tutti. E tutti gli italiani si sono
raccolti attorno alla bandiera nazionale, hanno fatto ore di fila al
Vittoriano o si sono assiepati ai funerali di stato nella Basilica di
San Paolo davanti a quelle bare avvolte nel tricolore. Ero presente
anch’io e posso dire che c'era tanta dignità, qualità rara nel nostro
paese. Anche ieri giovani coppiette di provincia – i discendenti dei
contadini morti sull’Isonzo e a Caporetto - mi chiedevano dov’era il
Vittoriano, monumento chiuso fino a pochi anni fa. Ma ci si chiede
perché tanta partecipazione e tanta enfasi solo adesso: in fondo negli
ultimi vent’anni sono morti quasi duecento fra militari e civili nelle
varie missioni all’estero, ma finora nessuno ci aveva fatto caso più di
tanto. Dov’è la novità? Intanto, era dalla strage di Kindu (Congo belga,
1961) che non morivano tanti soldati insieme. Una guerra inizia quando
non ci si ricorda più dei nomi, ma prevale l’aspetto collettivo della
tragedia. Ma c’è di più: per noi italiani è la fine dell’innocenza.
Mi spiego meglio. Il nostro esercito non combatte da più di cinquant’anni:
la storia e gli equilibri politici della Guerra Fredda e le crisi degli
anni Novanta prima hanno reso marginale la presenza politica e militare
dell’Italia, in seguito l’hanno specializzata. A far la guerra ci
pensano da anni eserciti meglio addestrati e preparati – quello
americano, quello inglese, la Legione straniera – mentre a noi italiani
vengono assegnati settori meno esposti e soprattutto un tipo di missioni
che ormai sappiamo fare anche bene, le c.d. operazioni di peacekeeping o
mantenimento della pace, tutte quelle legate alla ricostruzione civile
dei paesi disastrati da guerre ed altre calamità umane e naturali. Non è
cosa da poco: se dieci anni fa avevamo in giro 3.000 soldati, oggi ne
abbiamo 10.000 sparsi su un’area molto lontana dal territorio nazionale.
Abbiamo nel tempo concluso bene una serie di missioni anche difficili
(Mozambico, Timor Est, Afghanistan) e manteniamo nei Balcani una forza
di stabilizzazione che garantisce indirettamente la sicurezza e il
benessere di tutti gli italiani. Chi pensava ancora vent’anni fa che un
esercito professionale fosse un pericolo per le istituzioni democratiche
si è lentamente adattato alla novità. Su questi volontari si è fatta
molta retorica, in realtà essi sono per la maggior parte disoccupati
meridionali pagati comunque meglio di un borsista universitario, rischio
a parte s'intende. Ho conosciuto ragazzi di venticinque anni con già
quattro o cinque missioni alle spalle e l'esperienza di un veterano.
Sanno trattare con i civili, non sono razzisti e si fanno rispettare
senza prepotenze. E soprattutto sono mandati a ricostruire società
devastate, quindi combattono soltanto se costretti a difendersi oppure
in circostanze eccezionali, come in Somalia nel 1992.
Tutto questo non deve ingannare però l’opinione pubblica: non sono
missioni di guerra – leggi: di combattimento – ma sono spesso missioni
che operano dove esiste uno stato di guerra. Si mandano i soldati non
per sostituire la Croce Rossa, ma per proteggerla. Ma un esercito prima
di difendere gli altri deve per prima cosa difendere se stesso, quindi
deve mantenere livelli decenti di addestramento e comando ed essere
equipaggiato di conseguenza. Chi è tornato nell’esercito rimane sorpreso
dalla qualità attuale dei materiali rispetto anche a dieci anni fa e in
effetti è stato fatto uno sforzo enorme. Ma uno sforzo enorme è stato
fatto anche per legittimare questo tipo di operazioni: da qui l’immagine
diffusa fino alla nausea del buon soldato italiano di pace che non usa
il fucile, che sfama i bambini, aiuta gli anziani, cura i malati e
ricostruisce ponti e ferrovie. In realtà l’unica funzione esclusiva del
soldato è il combattimento – tutto il resto si può fare anche senza
divisa e senz’armi – ma è proprio l’unica ufficialmente rimossa. Nella
realtà quando necessario si spara e si è anche sparato, né sempre le
missioni prevedevano un’impostazione assolutamente difensiva (è il caso
dell’Afghanistan), ma si è preferito sorvolare e insistere politicamente
sull’immagine degli italiani su cui nessuno spara perché son bravi e
aiutano la gente. Con il risultato che alla fine ci hanno creduto pure i
soldati e hanno abbassato la guardia. Ora abbiamo tutti aperto gli
occhi.
Marco Pasquali
3 dicembre 2003
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