Tazzine miniaturizzate di bucchero dal primo deposito
votivo del Colle Oppio (VI secolo a.C.)
Piccolo kouros bronzeo dal primo deposito votivo
del Colle Oppio (ultimi decenni del VI secolo a.C.)
Pesi da telaio e rocchetti fittili dal secondo deposito
votivo del Colle Oppio (IV-III secolo a.C.).
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LA MISTERIOSA CERIMONIA DI ROMA ANTICA:
Il rito degli Argei
Uno scavo effettuato oltre dieci anni fa a Roma, in
un'area sul Colle Oppio (all'angolo fra viale del Monte
Oppio e via delle Terme di Traiano), condusse ad alcune
interessantissime scoperte archeologiche, purtroppo assai
mal note al pubblico dei non specialisti. Nel corso di
quello scavo, infatti, a parte gli scarsi resti di una fullonica
(ossia, di un'antica lavanderia) di età medio-imperiale,
si rinvennero: una grande struttura circolare - rimasta
in uso dal tardo periodo repubblicano fino ad età
tardo-antica (o alto-medioevale) - peraltro rappresentata
in un frammento della grande pianta severiana di Roma
antica (la cosiddetta Forma Urbis Marmorea);
un'area sacra, di età tardo-repubblicana, con più fasi
di vita, ma definitivamente abbandonata nel II secolo
d.C.; infine, due depositi votivi, il primo del VI secolo
a.C. (o, meglio, di fine VII-VI a.C.) ed il secondo del
IV-III secolo a.C. Dallo scavo, risultò probabile
altresì che la struttura circolare, più o meno coeva
per l'epoca di fondazione all'area sacra, fosse stata,
almeno nel periodo più antico, in rapporto con l'area
sacra stessa, tanto più che il deposito votivo arcaico
era stato trovato proprio all'interno della zona dove,
più tardi, sarebbe stata costruita la struttura
circolare (il deposito del IV-III secolo a.C. fu
rinvenuto, invece, poco al di fuori). In base a ragioni
di carattere archeologico - topografico, già all'epoca
dello scavo si formulò l'ipotesi di una relazione dei
ritrovamenti effettuati con l'antica cerimonia degli Argei,
o, meglio, che l'area sacra allora rinvenuta, fosse uno
dei sacrari degli Argei, per l'esattezza, il IV
del Colle Oppio. Questa congettura ha trovato poi un
certo seguito tra gli studiosi e, per questo motivo, ci
è parso opportuno ora divulgarla in questa sede. Ma che
cos'erano gli Argei? Con il nome Argei
o Argea nella Roma antica, s'indicavano due cose
distinte. Anzitutto i ventisette fantocci di giunco che
ogni anno, il 14 di maggio, erano precipitati nel Tevere,
nel corso di una solenne cerimonia, dal Pons
Sublicius. Il rito era compiuto dalle Vestali,
probabilmente con la partecipazione dei pontefici. Con
questo stesso termine però s'indicavano anche i
ventisette sacrari, distribuiti nelle quattro regioni
serviane (queste ultime erano il risultato della
partizione di Roma effettuata, nel VI secolo a.C., dal re
etrusco Servio Tullio, una divisione rimasta
sostanzialmente in vigore fino a quella, in quattordici
regioni, di età augustea). L'elenco di questi sacrari ci
è noto dallo scrittore latino Varrone, mentre, da
un'altra fonte, sappiamo che i sacrari erano visitati il
16/17 marzo. Alla processione prendeva parte la Flaminica
Dialis, ossia la moglie del flamen Dialis,
uno dei sacerdoti di Roma antica maggiormente gravati da
arcaici divieti e tabù. Gli studiosi moderni hanno
supposto che l'elenco dei sacrari restituisca il percorso
e l'ordine della processione stessa e che quest'ultima
avesse lo scopo di deporre i fantocci nei sacrari, donde
erano tolti a maggio per essere gettati nel fiume. Per
spiegare le origini ed il significato di questo rito,
sono state avanzate numerose, e assai complesse, ipotesi.
Se l'organizzazione della cerimonia parrebbe da riportare
proprio al periodo del re Servio Tullio (anche se il
rito, nel suo nucleo costitutivo, potrebbe anche risalire
ad età più antiche), nessun dubbio può avanzarsi sul
suo significato. Si tratta, infatti, di una cerimonia che
rientra nel novero dei cosiddetti riti "del
capro espiatorio", assai comuni in civiltà,
prevalentemente di carattere agricolo, in cui si
conservano più o meno consistenti tracce di pensiero
"magico". Scopo di queste cerimonie è quello
di espellere periodicamente dal contesto urbano i mali -
percepiti come miasmi contaminanti - accumulati dalla
comunità. E' chiaro perciò che i fantocci di giunco non
rappresentano altro che i sostituti di esseri umani veri
e propri (un'attenuazione di un barbaro e più antico
rito?) che, dopo essere stati ritualmente caricati dei
mali della città, venivano gettati nel Tevere allo scopo
di espellere le pericolose contaminazioni dal contesto
urbano. Riti del genere s'incontrano, a volte, perfino in
alcune città della civilissima Grecia antica, dove si
procedeva proprio all'espulsione di esseri umani in carne
ed ossa (i cosiddetti pharmakòi).
Lanfranco Cordischi
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