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Carla Cantatore: le inquiete presenze
 

     Non inganni l'aspetto fantasmico-intellettuale -comunque indubbiamente trasgressivo, quasi ipotesi di sovrasenso nata sulle ceneri del realismo mimetico- della pittura di Carla Cantatore. Si tratta, in primo luogo, di esperienza di elevata professionalità; e ciò dovrebbe bastare ad escludere il peso di questa o di quell'altra pregiudiziale, rivelandosi come primaria ed insostituibile la responsabilità del "fare" artistico. Si tenga conto, poi, del consenso d'anima: che è pieno, tenace, intricante e libera da ogni rishio di servitù gli attraversamenti molteplici della cultura figurativa italiana ed europea.
Perché Carla Cantatore si è guardata attorno, ma lo ha fatto con intelligenza e sensibilità elettiva, graduando entusiasmi e recusa-zioni, filtrando memorie e confluenze analogiche, stabilendo, infine, una osmosi non più classificabile se non come il respiro di una propria urgenza e di una propria identità. Davanti a questi dipinti raffinati ed insieme robusti, quasi sempre spiazzanti perché debordano dalla usura del regesto visivo, i conti bisogna farli col racconto interiore: un allegorismo di stagioni atemporali, un teatro di invenzioni improbabili che dichiarano tuttavia, a filo di favola universalizzante, corpose verità delle coscienza. La poesia enigmatica della brava artista genovese (romana di adozione) non è quella della scuola romantica tedesca, ad esempio di Arnold Bòcklin, e nemmeno quella dei silenzi ferraresi dechirichiani: le associazioni o dissociazioni visionarie non esercita il loro sortilegio allucinatorio per via di assenza, nel deserto spettrale delle premonizioni, ma con la insistita elementarità della immagine umana; e non importa se sia la figura in ocra viridata di un Autoritratto, con il sottile compendio botanico-paesistico che sigla in termini fisici il transfert dell'autointerrogazione, o il manichino seduto de / giochi stancano, dove la rarerazione metafisica è corretta dalle eleganti coordinate di un'architettura chiarista; o ancora l'altro manichino di una crocefissione in rosso, un'ardita metafora sospesa tra mare e cielo, o quelli di un Notturno di aristocratica scenografia ma vibrante di clandestine allusioni, o di Appuntamento orfico, con la maschera tragica e l'uovo e il grande cavallo che sembrano indulgere, si, ad un rituale esoterico, ma non rinnegano una suggestione emotiva radicata nel contesto esistenziale.
Cosi l'avventura dell'uomo resta in prima linea, straniera alle compiaciute equazioni del puro fantasticare. E in termini -è giusto ribadirlo- di buona pittura.
Non si cerchino, qui, le "giraffe in fuoco" di Dalì, il dualismo vita-morte di Masson, il simbolismo segnico di Mirò. E ancor meno i "radiogrammi" di Man Ray: il surreale di Carla Cantatore è tributario di una sicurezza di avvertimenti che impedisce il gelo del sofisma intellettualistico.
Pittura inventata, pensata, ma calda di turbamenti e trasalimenti lirici. Le sequenze spaziali, le dilatate luminosità dell'olio // passaggio del vento possono essere, come tanti altri dipinti, lontani dai parametri esterni della narrazione, il segno di una migrazione onirica verso i contini dell'o/fre; cosi come la evocazione delle barche coperte sul Baltico ghiacciato (ed il ricordo va subito ad una splendida personale tenuta dall'artista all'Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma) traduce, a dispetto dell'innesto di qualche dettaglio stregato, la freschezza di una elegia contemplativa. Carla Cantatore ha dato già prove di sicuro rilievo; e mi riferisco anzitutto, com'è mio costume, alla congruità e correttezza linguistica dei modi espressivi. Si aggiunga l'inquietudine di un mondo sostanziato, in parallelo, di amore e di sofferte orditure speculative: si avrà, netta, la proiezione di un'arte scampata alla massificazione, capace di espandersi "fuorischema", con sincerità e singolarità di accenti.

RENATO CIVELLO